giovedì 7 aprile 2011

n.10 CATACLISMA



succedeva due anni fa, il 6 aprile 2009.


Il ragazzo aveva lo sguardo perso fuori del finestrino. il pulmino correva veloce lasciandosi dietro quello che avrebbe potuto essere l’inferno in terra.
Non poteva fare a meno di pensare alle prime impressioni quando era arrivato all’Aquila: si era aspettato di trovare una città fantasma, distrutta, devastata, priva di vita. Quel movimento tutto intorno gli era sembrato quasi inopportuno e lo aveva persino irritato per aver tradito le sue fantasie. Si ricordava molto traffico, traffico che poteva sembrare quello di una caotica città che si avvicinava all’ora di pranzo di un venerdì qualunque, ma osservando con più attenzione il ragazzo si era accorto che quasi tutti i veicoli erano dei soccorsi, dei pompieri o della protezione civile. Lì, due settimane prima, la terra si era aperta e aveva fagocitato ingorda varie città: un’ecatombe di trecento vite. Davanti a quella città che si apriva, o per meglio dire si spaccava davanti a lui, pensò al misero aiuto che poteva dare e che sarebbe stato, se non inutile, quantomeno trascurabile.
“SIAMO SCOSSI MA NON MOLLEREMO MAI”
L’Aquila accoglieva con questa frase i visitatori: lettere che, scritte a bomboletta su un muro all’uscita dell’autostrada, sembravano tracciate con una vernice che aveva il potere di tingere, macchiare, anche l’anima oltre che l’intonaco.

L’inquadratura forzata del finestrino, sadica, costringeva un’ultima volta lo sguardo a dedicarsi al resto del paesaggio che scorreva davanti:
insegne storte, negozi chiusi, crepe che correvano da casa a casa, in una gara concitata lungo le vie. Le mura antiche della città, che avevano resistito ai secoli, erano state vinte in soli 30 secondi quella tragica notte. Palazzi condominiali lasciavano intravedere dalle voragini sulle pareti esterne pezzi di stanze, vetrine su quelli che fino a poche settimane prima dovevano essere stati luoghi di famiglia, di casa, di felicità: il ragazzo si sentiva un po’ a disagio, quasi li stesse spiando, ma di fatto erano lì davanti a tutti, come quella città disastrata.
Un terremoto si dice colpisca “a macchia di leopardo”, per questo alcuni paesi erano stati risparmiati rispetto ad altri, ma non era difficile trovare una casa intatta accanto ad una crollata: lì, pensò il ragazzo, c’era qualcosa che non andava nel modo di costruire, ne era la prova l’ospedale completamente inagibile: ora al suo posto c’era una tendopoli. Le aveva conosciute bene quelle tende e ora l’odore di amuchina invadeva le sue narici, attore ineccepibile nella commedia dei ricordi. Si ricordava poi l’impressionante via-vai di ambulanze, ed impressionante era la varietà e la quantità delle città che le avevano prestate alla causa dei soccorsi.

Il pulmino si fermò, costretto dalla fila e il ragazzo potè soffermarsi a guardare un dottore che fumava distratto una sigaretta; sembrava attaccarsi a quella come fosse l’unico contatto con la vita che aveva prima. Profondi solchi gli incorniciavano gli occhi, lo sguardo sembrava perso nel vuoto, forse ormai troppo stanco per fissarsi su un punto preciso, o forse troppo stanco del mondo che vedeva. Distanti come lo sguardo erano la mente e l’animo, tanto che non sembrava essersi nemmeno accorto del ragazzo che lo fissava attento: davanti a lui c’era un uomo ricoperto da strati e cumuli di oneri, preoccupazioni,tragedie e paure: le sue condizioni erano testimoni incorruttibili dei suoi sacrifici e raccontavano quelle settimane di continua lotta.

Distogliendo lo sguardo, il ragazzo tornò a pensare alla situazione che, dovendo a malincuore tornare alla sua vita, si stava lasciando alle spalle. Quello dove lui aveva passato quei giorni surreali era il campo di Centi Colella che costituiva la seconda tendopoli per grandezza: un’estensione d’innumerevoli brande, 8 docce e 4 bagni diventati essenziali per le mille anime che abitavano il campo. Centi Colella si trovava a solo un chilometro dal centro ormai blindato e reso inaccessibile da continui presidi militari: della parte antica dell’aquila i, restava ormai solo il ricordo degli abitanti.
Il compito del gruppo di cui faceva parte era consistito nel garantire un’ambulanza ventiquattrore su ventiquattro. Gli ordini erano di trattare i pazienti il più possibile sul posto e ricoverare solo se necessario perchè l’ospedale disponeva solo di 80 posti letto. Quando non era stato di turno si era occupato dell’infermeria aiutando il medico, o aveva dovuto raccogliere le ricette delle persone che non avevano più una macchina per spostarsi alla ricerca di una farmacia.
Non riusciva a non ripensare a quella gente: era difficile dire che si trattasse di terremotati. All’inizio il ragazzo non aveva potuto fare a meno di pensare che quelle persone che gli sorridevano ospitali, prese nelle loro conversazioni, venissero da fuori; ma si era accorto quasi subito che era impossibile perchè le persone che realmente non venivano da quelle zone, all’Aquila vestivano in maniera diversa: divise rosse, arancioni, gialle, turchesi erano lì ,accanto alla gente, disponibili le dedicavano tutte le loro energie.

La conclusione del suo viaggio portava con sè una consapevolezza: le persone dopo tutto erano buone, l’aveva visto lì, giorno per giorno, aveva visto cosa il terremoto aveva saputo tirar fuori dalla gente, lui ne era stato testimone e tornava a casa arricchito in maniera indescrivibile a parole.

Il pulmino continuò la sua corsa, ormai già in autostrada. Il ragazzo lasciò correre anche lui i suoi pensieri scivolando in un profondo sonno.

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