mercoledì 27 luglio 2011

la scoperta è sempre uno stupro del mondo naturale. sempre.

"Quello che interessa veramente agli scienziati sono i risultati. se non fossero loro a farlo, sarebbe qualcun altro. la scoperta, credono, è inevitabile. così cercano semplicemente di essere loro a farla.
ecco il gioco della scienza. anche la pura scoperta scientifica è un atto aggressivo, penetrante: cambia letteralmente il mondo. gli acceleratori di particelle feriscono la terra e lasciano scorie radioattive. gli astronauti lasciano rifiuti sulla luna.
La scoperta è sempre uno stupro del mondo naturale. sempre.
C'è sempre una prova che gli scienziati sono stati là. vogliono che sia così. devono piantarci i loro strumenti. devono lasciare il loro marchio. non possono limitarsi ad osservare. non possono limitarsi ad ammirare. non riescono ad adattarsi semplicemente all'ordine naturale. devono far accadere qualcosa di innaturale.
Questo è il lavoro degli scienziati."

venerdì 22 aprile 2011

assignment 6.2 scienza e filosofia

cos'è la scienza? qual'è il suo significato? qual'è la sua valenza conoscitiva? quale deve essere il metodo per che essa porti il maggior progresso possibile?
per rispondere a queste domande approfitto di uno spunto, dell'asist che iamarf mi fa qui:
"La conoscenza scientifica non si basa su singoli risultati ma sul fatto che un certo esperimento, replicato da ricercatori diversi in laboratori diversi, dia sempre gli stessi risultati. La conoscenza scientifica non è mai definitiva. Può solo consolidarsi con il tempo, tramite la replicazione degli esperimenti diretti e la conferma di altri esperimenti che su quei primi risultati si poggiano. La conoscenza scientifica può solo consolidarsi ed è sempre a rischio. Anche dopo una messe di conferme basta un solo risultato negativo a rimettere tutto in discussione. È un fatto che accade normalmente. Di solito questi eventi traumatici si risolvono nella definizione di un certo campo di validità della conoscenza precedente e nella nascita di un nuovo e più ampio dominio nel quale valgono altre leggi più generali."

Karl Popper  fu un filosofo del XX secolo che si occupò soprattutto di epistemologia definendo cosa fosse la conoscenza e riflettendo sul valore conoscitivo della scienza. quello che è centrale in Popper , oltre al concetto secondo cui una conoscenza assoluta è irraggiungibile,  è il suo razionalismo critico per il quale "nulla deve esser considerato esente da critica". 

ma come arrivò Popper a questa concezione? egli rimase colpito dal lavoro di Einstein, non tanto per la genialità di questo, ma per il fatto che egli avesse formulato tutte le sue teorie in maniera "rischiosa" , ovvero che queste non fossero state formulate in vista di facili conferme sperimentali  ma in vista di possibili smentite. Einstein aveva soverchiato la supremazia della fisica newtoniana con una metodo che da popper sarà definito falsificazionista, metodo che sfata il mito millenario del verificazionismo, secondo cui una teoria è tanto più vera, più scientifica, tanto più può essere verificata.  

per comprendere meglio il limite del modello verificazionista  neopositivista ci viene in aiuto con un semplice aneddoto un altro, più recente filosofo, Bertrand Russell.
un tacchino di un allevamento statunitense decise di formarsi una visione del mondo di tipo empirista:
<<Fin dal primo giorno questo tacchino osservò che, nell'allevamento dove era stato portato, gli veniva dato il cibo alle 9 del mattino. E da buon induttivista non fu precipitoso nel trarre conclusioni dalle sue osservazioni e ne eseguì altre in una vasta gamma di circostanze: di mercoledì e di giovedì, nei giorni caldi e nei giorni freddi, sia che piovesse sia che splendesse il sole. Così arricchiva ogni giorno il suo elenco di una proposizione osservativa in condizioni le più disparate. Finché la sua coscienza induttivista non fu soddisfatta ed elaborò un'inferenza induttiva come questa: "Mi danno il cibo alle 9 del mattino". Purtroppo, però, questa concezione si rivelò incontestabilmente falsa alla vigilia di Natale, quando, invece di venir nutrito, fu sgozzato.>>
(wikipedia)

per verificare completamente una legge dovremmo quindi avere presente tutti i casi e ciò non sarà mai possibile, per ciò un modello come questo non può essere il metodo che deve seguire una scienza.
la falsificabilità è quindi etimologicamente superiore alla verificabilità in quanto un numero enorme di conferme, come abbiamo detto, non rende certa una teoria ma basta un solo fatto negativo per smentirla (potrò osservare per giorni  cigni bianchi in un fiume ma non sarò mai in gradi di formulare come assolutamente vera la frase "tutti i cigni sono bianchi" ma mi basterà vederne solo uno nero per poter proclamare un principio più generale: "i cigni non sono tutti bianchi").

se quindi quello che possiamo imparare dall'esperienza non è la veridicità di un'ipotesi, allora cos'è?  Popper risponde semplicemente <<la falsità di un'ipotesi>>.


non esiste quindi una conoscenza assoluta, ma solo una conoscenza per ipotesi 
<<la scienza non è il mondo della verità (certe e definitivamente veri-ficate), ma l'universo delle ipotesi (per il momento non ancora falsi-ficate)>>.


qui sta il progresso scientifico; un'ipotesi è tanto più scientifica tanto più può essere falsificata, ovvero confutata, da questa in seguito a opposizioni si creeranno teorie ancora migliori, tutte possibili oggetti di smentite che a loro volta genereranno teorie ancora più "scientifiche" e così via. perciò le ipotesi non potendo venire verificate possono tutta via essere corroborate e divenire quindi, non più vere, ma preferibili rispetto ad altre.

esiste quindi un metodo per giungere a delle teorie scientifiche.
popper ritiene che le iniziali ipotesi siano frutto di <<congetture audaci e intuizioni creative>> riconoscendo un genio irrazionale alla base della scienza. ma rendere un ipotesi propriamente scientifica, questa deve passare attraverso un processo di controllo, un metodo, che renda la scienza da irrazionale a razionale.
questo metodo scientifico è quello lasciatoci in eredità oggi: il metodo per prove ed errori (trial and error) che, secondo il filosofo, si configura come diretto prolungamento culturale del naturale processo di adattamento e sopravvivenza della specie.
in conclusione Popper, con la sua valorizzazione epistemologica e pedagogica, legittimò filosoficamente un pilastro della nostra attuale concezione scientifica ovvero che l'errore è parte integrante del sapere scientifico, al punto che fare scienza significa, in concreto, incorrere in sbagli e imparare dai propri errori.

assignment 6.1 letteratura scentifica

la conoscenza oggi ha mutato i suoi tratti, guadagnandosi  attributi come istantanea, globale (e globalizzata), multilinguista e così via.
quella di oggi è una conoscenza  estremamente ultraspecializzata e frammentata in una moltitudine di "sottoscienze" per propria natura elitarie e per ciò drammaticamente privilegio di pochi.
per fare un esempio, difficilmente uno pneumologo potrà comprendere completamente un articolo di radiologia sulla diagnosi delle mtastasi renali.
ci sfugge quante menti e quanti protocolli si nascondono dietro al "semplice" processo di diffusione e transizione del sapere.

la letteratura scientifica è il principale metodo attraverso cui fluisce la conoscenza: il modo attraverso cui questa circola, si diffonde e diventa fruibile per chiunque abbia le competenze per comprenderla, in qualsiasi regione del mondo si trovi.
il frame della letteratrura scientifica è estremamente complesso ma un ruolo fondamentale è da attribuirsi al metodo di peer-reviewing per la garanzia della qualità: un sistema di revisioni tra pari è sicuramente il più indicato per il controllo di articoli così specialistici.
centrale è la responsabilità che concerne la funzione di questo sistema: la pubblicazione su una rivista "legittimizza" nuova materia di conoscenza. qui si crea il sapere.
ma c'è anche un'altra responsabilità, più "umana", specialmente in ambito medico: un semplice "paper"    annuncia di fatto all'umanità la scoperta di nuove tecniche, terapie, trial clinici, di soluzioni efficaci per particolari patologie.
per essere più chiari, in questo momento ci sono uomini e donne, persone malate, che stanno aspettando il nuovo numero di "......." in attesa di leggere che la soluzione al loro male esiste ed è stata scoperta.  comprendiamo automaticamente che tra i limiti del peer-reviewing assume una dimensione drammatica quello del tempo o, più esattamente, del "tempismo".

i tempi medi di revisione vanno spesso oltre i dodici mesi e ci sono persone per cui un anno di tempo fa la differenza. di questo però non possiamo accusare i reviewer, professionisti del settore che quindi non possono e non devono dedicarsi alla sola revisione ma al loro lavoro e al loro aggiornamento.

la domanda quindi sorge spontanea: meglio un anno e una terapia che funziona sicuramente o meglio un mese e una terapia che potrebbe non funzionare? in ambito scientifico si risponde senza remore con la prima soluzione: la conoscienza per essere tale deve essere certa. non possiamo dare inizio a una serie di approssimazioni in ambito scientifico, è vero, ma non possiamo comunque fare a meno di vagare col pensiero a quelle persone per cui 365 giorni significano la vita o la morte.

Sono i criteri di pubblicazione invece a d essere difficilmente giustificabili: in base a cosa una articolo viene pubblicato da una rivista e da un'altra rifiutato? se ci pensiamo bene è un paradosso: se la conoscenza deve essere certa e universale per essere tale, allora perchè per una rivista una determinata scoperta lo è e per un'altra no? si tratta solo di scetticismi umani o di più umani interessi interposti?
è quindi proprio con il conflitto di interessi che il meccanismo conoscitivo si inceppa o almeno devia da un percorso "democratico" che per natura lo caratterizza.

martedì 19 aprile 2011

Assignment 4: delicious...peccato non sia utile quanto delizioso!

social bookmarking..la mia opinione è che il boom di facebook abbia messo troppa pressione a chiunque oggi crei un sito: tutto deve essere per forza "social" sennò non è cool..non sono d'accordo.
ci sono cose come il bookmarking che sono fatte per essere limitate e veloci. questo ennesimo "social" davanti all'ennesimo neologismo "segnalibrare" mi sembra solo un grattare audience senza offrire un servizio sostanzialmente utile ed innovativo.

è antipatico e quasi sempre sbagliato essere così sentenziosi, lo so, ma mi sento forte di essere un utente internet medio, da ragazzo ventenne e "smanettone" quale sono; credo che le mie esigenze rispetto al web rappresentino sicuramente quelle di un buon 50% dell'utenza internet generale.

interroghiamoci sul perchè registriamo i nostri 5,6,7 siti abituali sulla sidebar del nostro browser: se sono abituali vuol dire che li conosco fin troppo bene e quindi il mio problema non è quello di cercarli ma è invece quello di arrivarci velocemente.

ok mi direte,  e per i siti nei quali siamo incappati e vogliamo conservare e farne un'eredità per sempre? possiamo farlo su delicious vero. ma anche un più immediato copia incolla dell'URL su una pagina di google docs? ah già il copia incolla è un po' faticoso su google docs, ce lo ricorda picchio...

francamente mi sembra un complicarmi la vita, che sul web è spontaneamente semplice! se devo cercare un sito, tanto vale che usi google. ci basta ricordare una parte dell'URL o un elemento della pagina del sito su cui eravamo stati per trovarla col nostro motore di ricerca.
 la verità è che la rete è fatta per essere navigata e  l'unico porto fisso di cui abbiamo bisogno è proprio il motore di ricerca.

abbiamo parlato di velocità: può corrispondere alle mie esigenze di "velocità" una raccolta di bookmarks a cui devo già arrivare attraverso un indirizzo, oppure un segnalibro sulla mia sidebar (paradossale no?).
ok sono entrato su delicious. eseguo il login. mi si apre una pagina che nel tempo ho riempito di link inutili. panico: e ora? niente paura, delicious mi viene in aiuto con la sua ricerca per tag (come se tra i mille dolcetti ricercassi quelli a cui ho associato quel sapore)..che carino!
si, che carino, ma finisce lì.
nel fare questo ho già perso più 5 minuti e la mia pausa caffè ne dura 10.

per ora ti boccio delicius, ma nel caso le mie esigenze mutino rispetto a quelle della maggioranza dei net surfers ti tengo in mente; male che vada ti cerco su google (il tuo nome o qualcosa a cui ti associo) e ti ritrovo in un lampo!

giovedì 7 aprile 2011

n.10 CATACLISMA



succedeva due anni fa, il 6 aprile 2009.


Il ragazzo aveva lo sguardo perso fuori del finestrino. il pulmino correva veloce lasciandosi dietro quello che avrebbe potuto essere l’inferno in terra.
Non poteva fare a meno di pensare alle prime impressioni quando era arrivato all’Aquila: si era aspettato di trovare una città fantasma, distrutta, devastata, priva di vita. Quel movimento tutto intorno gli era sembrato quasi inopportuno e lo aveva persino irritato per aver tradito le sue fantasie. Si ricordava molto traffico, traffico che poteva sembrare quello di una caotica città che si avvicinava all’ora di pranzo di un venerdì qualunque, ma osservando con più attenzione il ragazzo si era accorto che quasi tutti i veicoli erano dei soccorsi, dei pompieri o della protezione civile. Lì, due settimane prima, la terra si era aperta e aveva fagocitato ingorda varie città: un’ecatombe di trecento vite. Davanti a quella città che si apriva, o per meglio dire si spaccava davanti a lui, pensò al misero aiuto che poteva dare e che sarebbe stato, se non inutile, quantomeno trascurabile.
“SIAMO SCOSSI MA NON MOLLEREMO MAI”
L’Aquila accoglieva con questa frase i visitatori: lettere che, scritte a bomboletta su un muro all’uscita dell’autostrada, sembravano tracciate con una vernice che aveva il potere di tingere, macchiare, anche l’anima oltre che l’intonaco.

L’inquadratura forzata del finestrino, sadica, costringeva un’ultima volta lo sguardo a dedicarsi al resto del paesaggio che scorreva davanti:
insegne storte, negozi chiusi, crepe che correvano da casa a casa, in una gara concitata lungo le vie. Le mura antiche della città, che avevano resistito ai secoli, erano state vinte in soli 30 secondi quella tragica notte. Palazzi condominiali lasciavano intravedere dalle voragini sulle pareti esterne pezzi di stanze, vetrine su quelli che fino a poche settimane prima dovevano essere stati luoghi di famiglia, di casa, di felicità: il ragazzo si sentiva un po’ a disagio, quasi li stesse spiando, ma di fatto erano lì davanti a tutti, come quella città disastrata.
Un terremoto si dice colpisca “a macchia di leopardo”, per questo alcuni paesi erano stati risparmiati rispetto ad altri, ma non era difficile trovare una casa intatta accanto ad una crollata: lì, pensò il ragazzo, c’era qualcosa che non andava nel modo di costruire, ne era la prova l’ospedale completamente inagibile: ora al suo posto c’era una tendopoli. Le aveva conosciute bene quelle tende e ora l’odore di amuchina invadeva le sue narici, attore ineccepibile nella commedia dei ricordi. Si ricordava poi l’impressionante via-vai di ambulanze, ed impressionante era la varietà e la quantità delle città che le avevano prestate alla causa dei soccorsi.

Il pulmino si fermò, costretto dalla fila e il ragazzo potè soffermarsi a guardare un dottore che fumava distratto una sigaretta; sembrava attaccarsi a quella come fosse l’unico contatto con la vita che aveva prima. Profondi solchi gli incorniciavano gli occhi, lo sguardo sembrava perso nel vuoto, forse ormai troppo stanco per fissarsi su un punto preciso, o forse troppo stanco del mondo che vedeva. Distanti come lo sguardo erano la mente e l’animo, tanto che non sembrava essersi nemmeno accorto del ragazzo che lo fissava attento: davanti a lui c’era un uomo ricoperto da strati e cumuli di oneri, preoccupazioni,tragedie e paure: le sue condizioni erano testimoni incorruttibili dei suoi sacrifici e raccontavano quelle settimane di continua lotta.

Distogliendo lo sguardo, il ragazzo tornò a pensare alla situazione che, dovendo a malincuore tornare alla sua vita, si stava lasciando alle spalle. Quello dove lui aveva passato quei giorni surreali era il campo di Centi Colella che costituiva la seconda tendopoli per grandezza: un’estensione d’innumerevoli brande, 8 docce e 4 bagni diventati essenziali per le mille anime che abitavano il campo. Centi Colella si trovava a solo un chilometro dal centro ormai blindato e reso inaccessibile da continui presidi militari: della parte antica dell’aquila i, restava ormai solo il ricordo degli abitanti.
Il compito del gruppo di cui faceva parte era consistito nel garantire un’ambulanza ventiquattrore su ventiquattro. Gli ordini erano di trattare i pazienti il più possibile sul posto e ricoverare solo se necessario perchè l’ospedale disponeva solo di 80 posti letto. Quando non era stato di turno si era occupato dell’infermeria aiutando il medico, o aveva dovuto raccogliere le ricette delle persone che non avevano più una macchina per spostarsi alla ricerca di una farmacia.
Non riusciva a non ripensare a quella gente: era difficile dire che si trattasse di terremotati. All’inizio il ragazzo non aveva potuto fare a meno di pensare che quelle persone che gli sorridevano ospitali, prese nelle loro conversazioni, venissero da fuori; ma si era accorto quasi subito che era impossibile perchè le persone che realmente non venivano da quelle zone, all’Aquila vestivano in maniera diversa: divise rosse, arancioni, gialle, turchesi erano lì ,accanto alla gente, disponibili le dedicavano tutte le loro energie.

La conclusione del suo viaggio portava con sè una consapevolezza: le persone dopo tutto erano buone, l’aveva visto lì, giorno per giorno, aveva visto cosa il terremoto aveva saputo tirar fuori dalla gente, lui ne era stato testimone e tornava a casa arricchito in maniera indescrivibile a parole.

Il pulmino continuò la sua corsa, ormai già in autostrada. Il ragazzo lasciò correre anche lui i suoi pensieri scivolando in un profondo sonno.

domenica 27 marzo 2011

n.9 [keep it trash] Kyliecious

Torniamo alla rubrica più seguita del fondo del barattolo, con un revival da popcorn e scatola di fazzoletti!
Noi la conosciamo per hits di ampio spessore culturale come Can't Get You Out Of My Head (confermo i vostri timori: nel tempo  che avete impiegato a pronunciarlo tutto avreste potuto finire il programma di anatomia 1) o All The Lovers (dove Kyle lanciando bianche colombe pasquali, guida orgioni di corpi accatastati che assumono volumi poligonali, spingendosi oltre l'altezza dei grattacieli newyorkesi. un genio insomma) e molti altri bassi momenti della musica internazionale..
La verità però, è che i suoi natali sono molto più elevati delle perle riportate qua sopra, e che molto vi è da grattare dal fondo di questo barattolo:
vi presentiamo oggi, in tutti i suoi 152 cm (la potete  quindi tranquillamente imbarcare nei voli Ryanair come bagaglio a mano), la poliedrica ed eclettica Kylie  Minogue back to the origins!
Mi permetto di anticipare le vostre domande: no, non è un video amatoriale di un'impostora dal bigodino facile, è lei in carne (poca) e ossa (brevi).
un giovine fiore che sboccia in tutta la sua animosa verve, completamente a suo agio nelle rarefatte atmosfere dell'ultimo ventennio dello scorso secolo.
La domanda sorge spontanea: se già nel 1987 questa cantante tascabile infestava gli schermi televisivi con "Loco-motion" e "I Should Be So Lucky", qualè la percentuale di botox nel nuovo album Aphrodite (2010) ?

Dato che comprendo che una volta finito di guardare questi portentosi videoclips la vostra voglia di possederla e di assomigliare a lei sarà irrefrenabile, per evitare che possiate realmente provare a farvi quelle improbabili acconciature per poi varcare la soglia di casa vostra, vi comunico che è possibile acquistare da oggi, solo presso i migliori rivenditori, la riproduzione a grandezza naturale della diva australiana.
come on everybody do the loco-motion!


lascia un'offesa!

lunedì 21 marzo 2011

n.8 [l'eternità attraverso il momento] Sebastiao Salgado.

La miniera d'oro di Sierra Pelada, Brasile. 1986
State avvicinando lo sguardo verso il monitor, strizzate gli occhi, cercate di realizzare cosa sono quelle macchioline scure che si affollano in un apocalittico formicaio.
Sono uomini in una miniera d’oro in Brasile.
Seguite la macchina fotografica che va alla ricerca della luce della vita umana, per svelarla con tragica intensità, con dolente tenerezza.
Seguite il minatore in cammino verso la sommità del monte  che si appoggia, per riposare, alla sua croce.
Religiosi o no, con la miseria della Serra Pelada, Salgado prende a bastonate la nostra coscienza perchè, leggete la data sotto la foto, questa scena da girone infernale è reale e sta accadendo adesso.


Terra. Acqua. Aria.Fuoco.
La potenza degli elementi è la potenza delle immagini di Salgado.
Ma sopra tutte, Salgado porta la potenza della massa; non della massa vittoriosa, quella della retorica socialista, ma la massa degli sconfitti.
La forza concettuale di un romanzo di Verga espressa con la violenza espressiva e sublime di cui solo una fotografia è capace.

Questo è Sebastiao Salgado, che nasce in Brasile nel 1944 e neanche farlo a posta, questo moderno Marx, studia economia prima nel suo paese poi a Parigi. É forse proprio per questa comprensione del momento storico e delle sue profonde dinamiche socio economiche, che questo fotogiornalista è riuscito a saldare le proprie fotografie alla realtà, alla storia, elevandole a emblemi dell’esistenza umana.
“salgrado fotografa la gente - dice Eduardo Galeano- i fotografi occasionali fotografano i fantasmi”

È per caso che Salgado si trova a Londra nel 71 a lavorare per l’industria internazionale del caffè ed è ancora per caso che l’anno seguente gli capita in mano la Leica di sua moglie, venendo così folgorato dalla consapevolezza che quella macchina fotografica era il mezzo perfetto per conoscere e far conoscere: è così, per caso, che Sebastiao Salgado inizia la sua carriera che lo porterà ad essere uno dei più grandi (sicuramente il più premiato, prolifico e socialmente impegnato) tra i fotoreporter contemporanei.


“Io fotografo come il mio paese mi ha insegnato a guardare. Ad esempio, fotografo moltissimo in controluce.[...] A casa mia, quando ero piccolo, per otto mesi l’anno vivevamo la terribile siccità, con un sole abbagliante da spaccare le pietre. Ma ha anche la pioggia mi ha influenzato. Nel mio paese ogni anno, dopo la siccità e il caldo, arrivava la stagione delle piogge: In quei mesi tutto appariva bianco e nero.”


“io cerco l’uomo nelle mie foto, al fondo di tutto.”



“a volte la gente mi chiede come mai io fotografi sempre i miserabili... Ma i soggetti delle mie immagini sono semplicemente persone che hanno meno mezzi materiali a disposizione. Non si tratta di poveri, ma di gente con una dignità, una profonda nobiltà.”


concludo con una frase emblematica di Eduardo Galeano:
“Queste fotografie continueranno a vivere ben oltre i loro soggetti e l’autore, poichè attestano la nuda verità e l’occulto splendore del mondo. Mostrano che, nascosti nel dolore della vita e nella tragedia della morte, vi sono una possente magia e un luminoso mistero in grado di redimere l'avventura umana nel mondo."


lunedì 14 marzo 2011

n.7 [l'eternità attraverso il momento] Helmut Newton.

Big Nude III. Henrietta


“Io sono un voyeur.
Penso che qualsiasi fotografo sia un voyeur, che faccia fotografie erotiche o altro.
Si passa la vita a guardare attraverso un buco della serratura.Se un fotografo dice di non essere un voyeur, è un idiota.”
Helmut Newton

È una questione di fibbie e bottoni. Di quei bottoni che il padre di Helmut Newton, Max Neustadter, produceva negli anni ’20 a Berlino e che il figlio, un’asola dietro l’altra, ha preferito tenere aperti. Così, sognando al maschile quell’eleganza distratta e provocante che spinge una donna a slacciarsi per caso la spallina di un costume o ad aprire il sipario di un abito da sera e lasciare splendere, sotto una luce di un’abatjour e di un fiammifero acceso, lo spettacolo di un seno superbo.

Scrive Laura Leonelli carpendo in maniera acutissima i pensieri più intimi e segreti dell’immaginario del giovane Newton. Deve essere  stata sicuramente questa l’ispirazione dalla quale prese forma la materia artistica di questo membro del pantheon della fotografia.

Se chiedete in giro, o cercate su internet il suo nome lo troverete spesso associato a targhe come Vogue, Yves Saint Laurent, Play Boy, Vanity Fair, ma Newton fu molto più che un fotografo di moda: portò l’arte alla moda e elevò la moda ad arte, fermo restando come diceva lui stesso che “nel mio vocabolario, ARTE è una parola sporca”.
Soverchiò radicalmente i termini ordinari dell’immagine di moda, producendo contemporaneamente una profonda rivoluzione sociale nel ruolo giocato dalla bellezza femminile.

Le smoking
1966 Yves Saint Laurent pubblica la fotografia di un vicolo parigino in notturno, un’atmosfera di attesa e proibito avvolge una modella in abito da uomo: un fascino conturbante, minimalista, una bellezza androgIna. Lo scatto fa scandalo, si accusa Newton di aver dato alle donne la possibilità di indossare abiti portati abitualmente da uomini con influenza e potere. Ma era proprio questo che voleva il fotografo; non ce la vedeva la donna con quelle sottane che l’avevano appesantita per secoli, era arrivato il momento di comunicare senza ipocrisie che la donna stava facendo strada e che era diventato un’avversario temibile e bellissimo.
Sono proprio le ipocrisie e la morale benpensante che Newton ripudia fotografia dopo fotografia “adoro la volgarità. sono attratto dal cattivo gusto, ben più eccitante del preteso buon gusto che non è altro che una normalizzazione dello sguardo”.

Fu uno di quei fotografi amati dalle donne prima che dagli uomini e di queste lui si faceva interprete, nelle ambizioni e nei desideri; le donne di Newton sono veneri sicure di se’, dure e sprezzanti, fiere e insieme maliziose e sexy, sempre e comunque bellissime.
Procacciatore di atmosfere sensuali e potenti che molti fotografi hanno inutilmente cercato di imitare, Newton propone donne che sperimentano continuamente la loro forza di attrazione e il loro fascino, incorniciate e esaltate nel lusso più effimero in cui estetismo e freddo sentimento si fondono  in un’opera inimitabile.
Montecarlo
I suoi scatti sono inconfondibili: le immagini comunicano al primo sguardo dirette, nette, con una carica erotica potente, intensa ma fine ed elegante allo stesso tempo. Un maestro del bianco e nero che ha piegato la luce in ogni sua fotografia all’esaltazione della bellezza femminile: un edonismo sfrenato che non cade però mai nell’eccesso nè nella violenza, proponendosi come il portavoce dell’autentica e segreta morale dell’upper class degli ultimi cinquant'anni.

Le donne si sono affidate a Newton, e ne sentiranno sempre la mancanza, perchè solo lui, nel dettaglio di un tacco alto su una moquette immacolata, ha saputo portarle con stile ai limiti della provocazione, a un passo dalla volgarità.







n.6 nato sotto il segno dei pesci

Mi chiamo Mumbasa. Ho sedici anni e no, non me la passo alla grande. Perchè non me la passo alla grande? Perchè vivo a Guananula e se a Guananula hai sedici anni, vuol dire che lavori già da dieci ed è quindi da quando avevi sei anni che non te la passi alla grande.
I miei amici dicono che non rido mai e in effetti non mi piace farlo. Mio padre rideva quando mi prendeva a frustate -diceva che lo aiutava a distrarsi dopo il lavoro- ed è forse per questo che l’ho sempre associato a qualcosa di spiacevole. Questo dovrebbe comportare che io mi mettessi a ridere quando sono triste ma non è vero, perchè mi ricordo che risi al funerale di mio padre, anche se in realtà non ero per niente triste. Infatti ora le cose vanno meglio; senza mio padre ora non devo mantenere anche la sua scorta di Jack Daniel’s (TM) e arrivo più facilmente alla fine del mese.
Oltre a non ridere, dicono che sono sempre arrabbiato e rancoroso nei confronti di tutti. A me piace dare la colpa ai cerchi di legno che mi dilatano in maniera crudele i lobi delle orecchie; credo di non averla mai capita la moda, ma li tengo, perchè qui a Guananula mi permettono di beccare di più.
Una volta andavo anche a scuola, lo facevano in parecchi e a quei tempi ero nel periodo in cui volevo omologarmi. La scuola era una scuola di bianchi, di quelli che dicono sempre “sir” e prendono il tè il pomeriggio, ma, siccome qui a Guananula non abbiamo un ministero dell’istruzione, si sentivano autorizzati di fare il programma che gli pareva più consono. Ci insegnavano come si puliscono le scarpe e come si vende il cocco sulla spiaggia, ma soprattutto ci insegnavano la fede: si parlava sempre di quel Gesù che era un tipo a posto, diceva un sacco di cose giuste, faceva i miracoli ed era l’idolo delle folle. Io lo stimavo e allora ci provavo con assiduità a moltiplicare la roba e trasformare l’acqua in vino; mi era sembrata una buona via per fare qualche soldo se mi fosse riuscito, ma non c’ero portato evidentemente, così frustrato mi arresi e lasciai perdere quelle cose a Harry Potter (TM) e alla sua scuola privata.
Insomma, visto che non c’erano altre soluzioni, ho continuato a lavorare e sono giunto al punto in cui non me la passo alla grande da un bel po’. Infatti lavoro per un’industria tessile; con me ci sono altri ventuno ragazzi della mia età e neanche loro se la vivono bene. Lavoriamo dodici ore al giorno perchè qui, con la globalizzazione, non hanno importato i sindacati che funzionano, ma solo quelli italiani. Le mie mani sono così piene di calli che quando do una carezza alla mia ragazza lei piange come se gli avessi tirato uno schiaffo (tra l’altro per questo ho dei seri problemi nella mia intimità) e mi si aprono continuamente dei tagli che sanguinano anche per molti giorni.
Il problema sono i fili, durissimi e taglienti, che siamo costretti a utilizzare per intrecciare tutte quelle sciarpe: la fabbrica per cui lavoro infatti, è specializzata in sciarpe ed esporta soprattutto nel comune di Firenze. Abbiamo delle misure standard nel fabbricare queste sciarpe, devono essere lunghe quindici metri, più o meno la lunghezza di una fila di posti in un’aula universitaria. Sono quindi sciarpe lunghissime e per noi, fabbricarle, rappresenta un vero calvario. Io non so perchè a Firenze abbiano bisogno di sciarpe così lunghe, mi rendo conto di appartenere a un’altra cultura e non voglio tentare di capire certe motivazioni mondane. Se sto scrivendo ora però, è per chiederti il tuo aiuto, per pregarti.
Io ti prego di riflettere sul fatto che dietro quella sciarpa, che tieni sul comodino pronta per domani, ci sono tantissime vite ed esistenze sfruttate e private di un qualsiasi tipo di felicità.
Io ti prego di interrompere questo commercio terribile, fatto di sudore, sangue e sofferenza.
Io ti prego, ogni volta ti dedichi alla tua sciarpata mattutina prendendo dieci posti per i tuoi (altrettanto dotati di sciarpa) amici, alle 6:30 nell’aula di patologia generale, nel complesso di scienze biochimiche, davanti al nuovo ingresso Careggi, ti prego di pensare ai ragazzi di Guananula.

lasciate un'offesa!

domenica 13 marzo 2011

n.5 [keep it trash] Au lecteur

PLESURE TO BURN?!?
E' forse il caso di prenderci un momento per una digressione sui motivi che mi hanno spinto a inaugurare una simil rubrica.
non posso sottrarmi da questa ammissione di colpa: è nel trash anni '80 che affondano le mie radici più profonde e autentiche. forse perchè nascendo nel 1991 ho avuto ancora la possibilità di respirare la tarda aria del decennio che se ne andava; ho probabilmente assorbito inconsapevolmente quel vasto clima esotico in cui si potevano rintracciare sottili fragranze che sapevano di Colpo Grosso, Duran Duran, Commodore 64 ecc..
Voi che in questo momento state leggendo, lo starete sicuramente facendo con un atteggiamento di distacco, magari con le gambe accavallate, girati di 45', un sopracciglio alzato e la bocca arricciata. mi viene qui in aiuto il buon vecchio Charles Baudelaire con la sua prefazione a "Les Fleurs du Mal" che lui intitola al lettore :
"Tu, lettor, conosci quel raffinato mostro,
-ipocrita lettore,- mio pari,- mio fratello!"
ebbene sì, anche Baudelaire credeva di parlare della Noia, ma in realtà parlava del trash,
"è il Diavolo a tenere i nostri fili,
dai più schifosi oggetti siamo attratti"
anche lui era stato conquistato da questa mirabile materia e non aveva paura di ammetterlo; probabilmente ascoltava Giò Squillo, guardava pessime serie televisive come Teen Mums e non si dimenticava mai di uscire con i suoi scaldamuscoli fuxia e la fascetta giallo fosforescente sulla fronte.
non ci illudiamo quindi: non era immune Charles e non lo siete neanche voi.
questi anni hanno lasciato una profonda impronta nella nostra società e ne siamo stati tutti, chi più chi meno, traviati.
Come ci spieghiamo altrimenti perchè non riusciamo a staccare gli occhi  da una puntata di Jersey Shore o da una di 16 and pregnant ?
e l'emozione genuina nel vedere un nerone americano che si compra il suo primo orologio di oro e diamanti o si fa la sua prima otturazione con la stessa pregiata materia?
e quel profondo e accattivante piacere che sale subdolo dai visceri addominali quando vediamo un pessimo trenino a buona domenica, o un Luxuria e una Belen che si infamano per chi ha più diritto di avere la vagina, oppure un Platinette e una Maionchi che parlano appassionate delle pendici genitali dei ballerini di Amici?
NON POSSIAMO INIBIRE PIU' OLTRE LE NOSTRE VERE NECESSITA'. E' arrivato il momento che la Trash Culture ritrovi il posto che gli smetta nei nostri bisogni giornalieri:
io vi aiuterò semplicemente in questa presa di coscienza.
do appuntamento alla prossima puntata di questa (ormai l'abbiamo compreso) fondamentale rubrica a tutti i miei lettori aspiranti medici, la cui fedeltà spero di conquistarmi con questa chicca.. WHAT SIGARETTE DO YOU SMOKE, DOCTOR?

lascia un'offesa!

sabato 12 marzo 2011

n.4[rumore di fondo] BATTLE FOR THE SUN: I PLACEBO SOTTO UNA NUOVA LUCE



Ti colpisce un Brian Molko un po' meno checca, forse un po' più imborghesito.
Poi inizia a cantare e ti accorgi che niente è cambiato: anche se un po’ invecchiato è sempre lui, insieme al suo timbro metallico e introspettivo, alla sua voce suggestiva e ammaliante.

La storia dell’ultimo lavoro dei Placebo, veterani di un genere Rock (che ormai fa storia da quindici anni) difficilmente inquadrabile e riducibile ad un aggettivo, non è povera di quegli aneddoti, di quei travagli e di quei colpi di scena che hanno da sempre consacrato l’uscita delle più importanti opere del genere.

La dipartita del batterista storico Steve Hewitt deve inizialmente aver avuto due conseguenze: per i cultori del gruppo, almeno una settimana sotto le coperte in compagnia di gelato e antidepressivi, per il mondo rock, la paura di non ritrovare più i vecchi placebo old-style: si temeva un gruppo riarrangiato, ormai privo di smalto.
In questo clima di ansie e rassegnazioni, pochi mesi prima della data fissata per l'uscita del nuovo album, i Placebo se ne vengono fuori sul loro myspace con quel pezzo affilato e prepotente che titola “Battle For The Sun”. I'estratto in anteprima dall’omonimo album ricorda subito il sound di Black Market Music e il testo è altrettanto cattivo: I placebo lo smalto se lo sono tolto grattandolo via a forza di riff di chitarra.
Il brano è però in realtà un sipario che si alza sulla nuova crew ed il video ne è la dimostrazione: quello che colpisce è quell’iniziale ed intrigante trotterellare di bacchette contro il rollante. È quell'inizio geniale, quel suono di ferro che tanto si sposa con quella voce indisponente e quel basso arrogante, che annuncia e presenta il nuovo componente della band Steve Forrest: un tappeto di tatuaggi con un ciuffo biondiccio incorniciante un mascellone che fa così American boy. Il ragazzo sicuramente risparmia sui vestiti (l'indumento più coprente che gli si sia visto addosso è stata una canottiera) ma non si serba certo le calorie, picchiando con energia sovraumana su quei tom. Drummer dalla tecnica e dal sound decisamente funky rock, con i suoi soli 24 anni ha regalato sicuramente una nuova primavera a una band che si temeva si avviasse verso i suoi “winters days”.
Ogni canzone dell'ultimo album risente di questa nuova carica, ogni attacco é fresco e riuscitissimo; i ritmi accelerano senza sacrificare la riflessività caratteristica della band. E intanto il ragazzo continua a battere come un disgraziato su quella batteria rendendoci ad ogni colpo di cassa più entusiasti.
L’altra faccia della medaglia del nuovo sound della band è costituita dalla presenza in molte canzoni degli archi: uno dei maggiori e riusciti ingredienti di svolta dal punto di vista musicale che, contribuendo anche alla poesia dei testi, dona alle bellissime quotes di Molko il potere di toccare l'animo dell'ascoltatore.
Una riflessione a parte la meritano quindi sicuramente i testi, dove fortunatamente si ritrova integra quell'introspezione difficile da decifrare tipica di Molko. Ancora una volta il cantante riesce a instaurare un legame empatico con l'ascoltatore ponendolo davanti alle sue ansie, i suoi rimorsi, le sue esperienze e le sue sensazioni. La Voce dei Placebo riesce ad arrivare alla camera dei segreti che ognuno di noi ha dentro di sè, attingendo la sua poesia da una materia a lui propria che arricchisce i brani di oscure allusioni e metafore rivelatorie; parti irrinunciabili di quei legami viscerali costituenti la sensibilità New Wave e decadente dei Placebo.

Un rapido ascolto.
Ci stordiscono subito con una track no.1 cattivissima, “Kitty Litter”, in cui si respira l'odore acre del desiderio che prende il controllo dei sensi; è una canzone che si sbarazza dei sentimenti e lascia il palco alla nuda e istintiva fisicità. I riferimenti alle divinità indiane e alla fortezza del cuore ci ricordano la poesia di Schopenhauer e ci fanno piacere sempre di più questa canzone .
L'album continua e supera l'unica caduta di stile costituita dal secondo brano "Ashtray Heart" (lascia perplessi il coro in spagnolo di sottofondo) consacrata da un video fastidiosamente trash. Basta però solo il capolavoro che è la parte conclusiva di “Speak in Toungues”, a farcelo dimenticare, appannandoci la vista per i lucciconi agli occhi; quei romanticoni dei Placebo riescono veramente a farti credere di poter "costruire oggi, un nuovo domani."
Si passa poi attraverso vibranti monologhi in “Julien”, recitati da farti accapponare la pelle dalla voce fuori campo di Brian che ci regala immagini pittoriche fortissime.
Ci acciecano luci splendenti nell'omonima “Bright Lights”, che si culla su un ritmo eccessivamente orecchiabile (troppo orecchiabile per gli standard ricercati a cui di solito si attiene la band), facendoci riflettere però sulle parole "a heart that hurts is a heart that works”.
Segue il rock incalzante di “Breath Underwather” alternato alle presenze disturbanti, che si trascinano avanti vellutate e insidiose, in “Devil In The Details”; mentre ritmi e controvoci gospel, insieme a tastierine giocattolo, sono sostenute da una base di solido rock alternativo a creare un mix accattivante in For What It's Worth (da notare il video in vero stile Placebo).

Il sound dell'ultima fatica dei placebo è frutto di un'evoluzione, di riflessioni che si aprono verso temi più ampi, risentendo comunque di quella “teenage angst” passata che ci ha fatto innamorare. Il messaggio dell'album è positivo, e per i placebo costituisce veramente un progresso. La battaglia per il sole che ci propongono è quella che ognuno di noi vive dentro se stesso ogni giorno e proprio per questo non possiamo essere immuni al fascino dell’album. Ma un ascolto più attento ci fa capire che in gioco, in questa battaglia per la luce, ci sono anche i propri valori (“don’t let them have their way”) contro un sistema che, in maniera antitetica, impone i propri (“there is no low we must obay”).
Ma spiegare il significato profondamente soggettivo di un’opera, svelarne i segreti e influenzarne l’interpretazione, costituiscono crimini imperdonabili e perciò mi fermo.
Lascio che questo lo faccia una molto piú eloquente eclissi riportata in copertina, assieme alle musiche e ai testi di quest'ultima opera targata placebo: Un'armonica suggestione di luci e ombre, chiari e scuri, una commistione geniale di testi accattivanti e di suoni impeccabili.
Prenderete così coscienza della battaglia in corso per la vostra anima.



I momenti più interessanti del “Battle For The Sun Tour”.
Live in Tokio 2010 (secret session)
Live at AngKor Watt 2009
Live at PinkPop 2009

giovedì 10 marzo 2011

n.3 l'angolo delle News

Ha ucciso un cane, lo ha sezionato, poi lo ha mangiato: le zampe sono state addirittura marinate come prosciutti. l'assurda e atroce scoperta è stata fatta in un casolare alle pendici di una collina di Firenze dalle guardie zoofile dell'Ente nazionale protezione animali. Un italiano di 23 anni è stato denunciato per maltrattamento e uccisione di animali: rischia fino a tre anni di carcere [...] a suo dire (l'italiano di 23 anni ndr.) "la carne è buona e saporita, ha un aroma di tartufo".

Apriamo così il blog di oggi con una notizia che si pone a cavallo tra la nostra rubrica "keep it trash" e le news della nostra splendida provincia fiorentina. Era importante approfondire il caso dopo che, camminando per andare a lezione stamattina, mi era caduto l'occhio sulla locandina di un'edicola.
Cercherò di riassumere per voi le domande che  sicuramente vi stanno balenando in testa. in ordine di importanza:

  1. la vicenda è  forse frutto dei disagi psichico-didattici provocati dal comune di Firenze che ancora si ostina a vietare le dissezioni sui cadaveri durante le ore di anatomia?
  2. si marina il prosciutto?
  3. e soprattutto, si può dire "marina" come verbo?
  4. e se le risposte 2 e 3 sono affermative, qual'è la ricetta?
per la soluzione di questi importanti quesiti (specialmente il 4, perchè i miei genitori mancano da una settimana, io incomincio ad avere fame e il cane del vicino non smette di abbaiare) mi affido ai vostri saggi commenti.

PS. A parte tutto, ritengo sia importante  ricavare un insegnamento da questa sorprendente vicenda (magari esprimerlo in rima come le morali delle favole di Esopo):
"se la fame nello stomaco ti scava un buco, ancora una volta il tuo amico a quattro zampe ti può venire in aiuto!"

mercoledì 9 marzo 2011

n.2 che cosa ci aspetta.

direi di darci una precoce e abbozzata organizzazione  che svilupperemo con il tempo.
comincerei subito con delle rubriche di basso rango alternate a qualcosa di più elevato, o comunque di meno idiota.
vi aspettano quindi costanti aggiornamenti nelle seguenti categorie:

  • keep it trash
  • il curturale
  • rumore di fondo
  • l'eternità attraverso il momento
  • tutto in famiglia

se non avete già premuto il pulsante exit perchè disgustati da questi fumosi e arcani titoli, siete dei prodi e per questo meritate di essere introdotti a una breve spiegazione delle suddete rubriche:


è piuttosto evidente che keep it trash si colloca a pieno titolo nella sezione "bassa legha", ma non per questo ha una dignità minore rispetto alle altre, anzi vi prometto che sarà quella che vi aprirà orizzonti nascosti che risulteranno essere sorprendentemente affini alle vostre anime. con keep it trash mi propongo di regalarvi periodicamente una perla (o piuttosto un rigurgito) dai più bassi livelli dei più disparati ambienti. delle chicche irrinunciabili che vi faranno lussare la mandibola per le risate o in alternativa per il disgusto (basta ottenere lo stesso risultato insomma).


il curturale diventerà per voi un esperienza di irrinunciabile arricchimento. perchè? perchè al di là della vostra occupazione, da studente universitario a lavoratore, tendete all'alienazione culturale. vi occupate tutti i giorni della stessa materia e questo vi appiattisce. e se vi appiattite deperite e vi vengono le occhiaie e poi vi vedete brutti e andate in depressione. quindi direi che i motivi ci sono tutti per comprendere l'essenzialità di questa rubrica che spazierà dall'arte alla letteratura, ai più disparati argomenti e aneddoti.


rumore di fondo invece, amplierà le vostre magre e (ne sono sicuro) di pessimo gusto conoscenze musicali. se siamo a raschiare, raccatteremo volenterosi (con l'aiuto dei vostri commenti) le onde sonore che si diffondono intorno a noi senza che ce ne accorgiamo, quel cosiddetto rumore di fondo che se isolato finirà subito nelle nostre playlist "on the go", ne sono certo!

l'eternità attraverso il momento deve il suo nome ad una famosissima quote di Henri Crtier-Bresson "le fotografie possono raggiungere l'eternità attraverso il momento". questa rubrica serve a ridare dignità a un'arte che spesso passa in secondo piano ( e noi quindi la raschiamo dal fondo!) proprio perchè è diventato uno dei più comuni modi di comunicare dei nostri tempi. la rubrica si costituirà di piccoli suggerimenti, immagini e riflessioni, che dovranno far gemmare le vostre risposte, i vostri commenti e le vostre critiche.

infine con tutto in famiglia raschierò i blog dei miei compagni di corso impegnati anch'essi in questa avventura informatica, alla ricerca di post che non meritano di passare in secondo piano in modo da garantirgli una risonanza un po' più ampia e infittire la rete dei nostri blog.



stay tuned guys!

n.1 l'inizio della fine.

Mantengo subito la mia promessa di dotarvi di un machete per la giungla dei vostri pensieri, come direbbe il capitano Jack Sparrow (lo so,si ocmincia già con pessime citazioni), cercando di spiegare il senso (in realtà mi propongo di trovare quest'ultimo lungo la strada, a dir male mettendo un piede davanti all'altro da qualche parte si arriva, no?) e l'ispirazione di quello che promette di essere il capolavoro nascente del blogging italiano: IL FONDO DEL BARATTOLO.

Partiamo dal titolo, che non è solo un titolo fighissimo ma molto di più: é piuttosto una filosofia di vita (se vi va poi lo faremo diventare un credo religioso e se ne vengono fuori un millesimo dei soldi che ha scientology io sono già contento); quello che intendo è che molte delle cose veramente degne di nota nella vita, passano inosservate e si depositano sul fondo dei barattoli che, metaforicamente parlando, sono le nostre esistenze (lo so, sto toccando delle profondità metafisiche che spaventano anche me stesso).
Come se le interessantissime premesse concettuali non bastassero, a tutto ciò fa da sfondo una grafica (ebbene sì, ne sono consapevole) irresistibilmente vintage che non vi lascia altre alternative se  non quella di iniziare a seguire le evoluzioni di questo sito.
Ma ancora non basta! (vorrei sottolineare che non è Mastrota che scrive e che non vi si vogliono vendere delle pentole) c'è anche un obiettivo che si pone sul piano etico-morale, possiamo chiamarlo un buon proposito:
raschiare dal fondo dell'infinita rete delle nostre esistenze i più disparati stralci di vita, le web minchiate più accattivati, i pensieri più inutili ma anche le perle culturali più dotte.
insomma vi propongo un sopraffino cocktail del sapere più eclettico: un'esperienza di vita che risveglierà i vostri sensi e la vostra anima trash..o almeno è quello che mi auguro.
e allora..CHI MI AMA MI SEGUA!

pace & amore.